La tana

Il ragazzo sui gradini, Originale

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suni
view post Posted on 21/3/2011, 18:48




Precisiamolo.
Questa storia non parla di una guerra in particolare. So che fatti e descrizioni potranno ricordarvene una tristemente nota – un di cui vanto diversi eroi nella mia regione – ma non è di quella che parlo. Per questo ho cercato di evitare ogni riferimento a luoghi e persone reali ed ho usato nomi fittizi, per lo più inesistenti e difficilmente ricollegabili a una lingua o un'etnia precise.
Avrei fatto un lavoro migliore se l'ispirazione non fosse stata ballerina ed il tempo tiranno. La combinazione delle due cose mi ha resa approssimativa ed imprecisa, schifosamente melensa e poco curata. Però avevo detto che avrei partecipato e per una volta non mi voglio rimangiare l'affermazione.
Vi auguro comunque una buona lettura.
suni





Il ragazzo sui gradini




Now the sun's gone to hell
And the moon's riding high,
Let me bid you farewell,
Every man has to die.
But it's written in the starlight
And every line on your palm,
We're fools to make war
On our brothers in arms.

(Brothers in arms – Dire Straits)





La busta spuntava dalla tasca.
Nate non aveva la minima intenzione di frugare un morto, non l'avrebbe mai fatto in vita sua per nessunissima ragione. L'idea degli sciacalli che si accanivano sui cadaveri per racimolare i loro pochi averi, che rivoltavano tasche e calzini come se potessero contenere chissà quale tesoro, lo ripugnava profondamente. Per quanto le cose andassero male, per quanto la miseria, la paura, i razionamenti sempre più scarsi e la penuria estrema che ormai attanagliava anche la sua vita gli stessero levando anche troppi scrupoli, e in fondo andava bene così, restava convinto che il giorno in cui fosse arrivato a mettere le mani su un cadavere per sottrargli qualche moneta avrebbe raggiunto il massimo degrado umano possibile. Sarebbe stato il punto di non ritorno, il superamento dell'ultima barriera che lo rendeva diverso da una bestia.
Ma quel ragazzo era venuto a morire proprio davanti alla sua porta. Non aveva nemmeno fatto rumore. Nate aveva sentito le raffiche da lontano, avevano risuonato in tutto il paese a lungo, squarciando il silenzio del coprifuoco, avevano fatto tintinnare il lampadario e smosso il buio di casa come un terremoto improvviso. Era rimasto seduto in cucina, nell'oscurità, col cuore in gola e l'orecchio teso nel terrore di udire da un istante all'altro il ronzio lontano degli aerei o le detonazioni delle bombe.
Invece era tornato il silenzio, pesante come una cappa. Era sempre così, il silenzio dopo gli scontri, diverso da qualunque altro. Nate ci si era abituato, ormai: il paese sprofondava in un'immobilità che aveva qualcosa di innaturale, troppo assoluto. Ci voleva sempre almeno una mezz'ora prima che tornasse a risuonare di lontano qualche uggiolare di cani, lo stridio degli uccelli notturni o il verso di altri animali, e lui aspettava. Aspettava finché non sentiva distante e lugubre il canto del gufo, e allora sapeva che per il momento era finita davvero. Allora andava a dormire.
Anche quella notte aveva fatto lo stesso: si era coricato sotto le coperte e aveva chiuso gli occhi pensando che quando fosse tornata la luce del giorno si sarebbe dissipata anche la paura. All'alba, quando aveva aperto la porta per andare a prendere l'acqua, l'aveva trovato lì davanti, raggomitolato per terra a ridosso dei rozzi gradini di pietra. Aveva la divisa macchiata di sangue rappreso, una chiazza scura che aveva raggiunto anche la terra e la pietra, e per un secondo Nate si era domandato stupidamente come avrebbe fatto a pulirla via. Poi aveva guardato la faccia, e non aveva pensato più a niente.
Era un ragazzo giovane, molto più giovane di lui, forse non aveva neanche ancora vent'anni. Gli occhi erano chiari, azzurri, spalancati nel vuoto. Nate non aveva mai visto in faccia un morto, ma gli avevano detto che gli occhi dei cadaveri erano vuoti; si accorse che non era vero, perché negli occhi di quel ragazzo c'era tutto il terrore che si potesse trovare addosso a qualcuno, e la sua faccia – un viso pallido, smunto, sottile – ce l'aveva disegnata su tutta, la disperazione. Nate aveva dovuto spostare lo sguardo in alto, verso il muro di casa, distoglierlo da quel corpo magro e rattrappito nell'uniforme logora, da quel volto di adolescente spezzato.
Per una frazione di secondo gli era balenato in mente il viso di Mika, anche se non somigliava affatto a questo qui, coi suoi capelli scuri e i suoi zigomi tondi – ma magari li ricordava così perché lo rivedeva bambino.
Il pensiero era stato così terribile, in un certo senso, così angosciante che lo aveva scacciato via con fermezza, spostandosi su altri ragionamenti. Di certo anche qualcuno dei suoi studenti, adesso, era sbattuto per terra davanti alla casa di uno che non sapeva chi fosse, e che non avrebbe nemmeno pianto perché ormai tutti erano secchi e morti dentro. Non avrebbe dovuto succedere. Non avrebbero dovuto permettere che succedesse. Se non fosse stato malato, Nate non se ne sarebbe andato a sfollare al paese. E non si sarebbe nemmeno fatto arruolare, piuttosto sarebbe scappato nei boschi come tanti. Ma con quella gamba zoppa non andava da nessuna parte, e dalla scuola l'avevano cacciato via quando ancora si poteva non essere d'accordo e perdere soltanto il lavoro. A scuola, almeno, poteva spiegare.
Aveva guardato di nuovo il ragazzo, controvoglia, domandandosi cosa doveva fare, adesso, con quel cadavere davanti alla porta. Forse sarebbero venuti a interrogarlo, magari sarebbe finita male; era meglio rientrare in casa e aspettare facendo finta di non aver visto nulla, sperare che poi qualcuno sarebbe venuto a portarlo via.
Lo sguardo gli era scivolato più giù, mentre faceva per voltarsi, da qualche parte tra le ginocchia raggomitolate e la mano sporca che aveva cercato di trattenere dentro il sangue che non ne voleva sapere, e l'aveva visto: l'angolino della carta che spuntava dalla tasca, la piega del bordo incollato di una busta giallognola.
Si era guardato intorno per un istante. Non sapeva perché l'avesse fatto ma si era guardato intorno e poi si era chinato, con la mano che tremava, il battito del cuore che rimbombava in testa, senza immaginare proprio niente, e aveva sfiorato col i polpastrelli di due dita quell'angoletto, l'aveva tirato un po' fuori riconoscendo quindi che si trattava proprio di una rozza busta fatta con la carta piegata. Allora aveva tirato più forte, deglutendo nello sfiorare quel corpo freddo e rigido, con le orecchie che ronzavano e la fronte sudata, e la busta era scivolata fuori dalla tasca per rimanergli in mano. Era stropicciata e piena, ma Nate non aveva pensato che ci potessero essere dentro dei soldi, o qualche cosa di valore, non aveva pensato proprio niente. C'era una busta, e lui l'aveva presa, perché il morto aveva una lettera e di certo non la poteva più spedire, lui. Aveva osservato ancora per un istante il soldato, poi era rientrato in casa zoppicante, lasciando le persiane chiuse come se stesse ancora dormendo. Aveva posato la busta sul tavolo come se scottasse, quasi scappando via, e si era rifugiato in solaio a far compagnia ai topi, con un libro e un paio di mele.
Quand'era uscito di nuovo, a metà mattinata, il cadavere non c'era più, e lui si era reso conto che non aveva fatto a caso alla sua divisa, e non aveva pensato di capire a che armata appartenesse. Aveva visto solo il sangue, gli occhi e la lettera, ma non aveva guardato se fosse uno dei suoi o uno dei loro.



Per tutto il resto della giornata Nate non pensò più alla lettera. O meglio si sforzò di non pensarci, mentre la sua mente sembrava rifiutare di focalizzarsi su qualunque altra cosa. Spaccò la legna per la stufa finché non si sentì il respiro pesante e incespicante in gola, con quei polmoni balordi che aveva, poi raccolse i cavoli nel suo orticello disastrato. Tra le foglie, mentre strappava le erbacce, trovò un bossolo di fucile, liscio, sottile e incrostato di terra. Chissà da quando era lì.
La lettera non era per lui. Nate si vergognava profondamente, perché quello che aveva fatto era come rubare, anzi peggio. Aveva derubato un morto, che non poteva nemmeno più difendersi. Quella busta non gli apparteneva. Magari l'avrebbe cacciato nei guai, magari conteneva un segreto militare, forse in quello stesso momento, al comando, un capitano stava dicendo che il cadavere della spia l'avevano trovato a casa sua e che bisognava venire a prenderlo per interrogarlo. Pensò che se lo sarebbe anche meritato, e poi odiò quel ragazzo morto davanti alla porta che l'aveva messo in quell'impiccio. Poteva andare a crepare da un'altra parte, o almeno mettere più cura nel tenere le sue cose, infilare meglio la lettera nella tasca: se lui non l'avesse vista spuntare, non gli sarebbe mai venuto in mente di allungare la mano.
Si sentì ancor più meschino per aver pensato quelle cose. Quel ragazzo biondo, poverino, così disperato, con tutto quel sangue per terra.
Si ricordò che la macchia era ancora lì, sui suoi scalini, e claudicò disgustato oltre il cancelletto dell'orto, verso la scala e la porta di casa: eccola lì, la chiazza, ormai quasi nera, con qualche mosca grassa che ronzava intorno. Quelli che erano venuti a portare via il corpo non l'avevano pulita, perciò sarebbe toccato a lui. Che orrore, Vergine santa, che orrore. Si ricordò di quando il figlio della vecchia Bela si era preso un proiettile nella spalla, e l'avevano portato nel granaio in cui si erano tutti rifugiati col braccio che grondava e un gemito basso che gli usciva a singhiozzo dalle labbra. Nate non lo sopportava, alla vista di tutto quel sangue si era sentito svenire a più riprese, rimanendo per miracolo ritto sulle gambe malferme intanto che cercava di rassicurare i ragazzini più piccoli. Stavolta invece no, non gli aveva fatto così tanto effetto. Ci si abitua a tutto.
Sospirò, prendendo lo strofinaccio e il secchio dell'acqua. Gli sembrò che il ginocchio desse un po' più fastidio del solito, mentre si chinava a sfregare per terra, storcendo le labbra con un brivido per quei mosconi appesantiti. Quell'odore acre che saliva dalla pietra gli seccava le fauci.
A contatto con l'acqua, la macchia ritornò rossa, liquida, e Nate trattenne un conato mentre la lavava via. Strizzando lo straccio nel secchio dovette chiudere gli occhi per qualche secondo, deglutendo pesantemente. Continuò a fregare il gradini finché l'alone scuro non fu sparito quasi completamente, si voltò per andare a svuotare l'acqua nello scolo e rimase lì impalato, con le mani di ghiaccio e il cuore in gola, scorgendo le sagome che si avvicinavano dalla via che portava in paese.
Erano tre. Uno non lo conosceva, forse uno straniero, l'altro era un ragazzo del borgo, uno scimmiotto analfabeta con le spalle larghe a forza di spostar balle di fieno. In mezzo, col suo bel cappotto e i lustrini dei gradi, marciava impettito il tenente colonnello.
Nate rimase lì impalato, immobile, pensando che ecco, era fatta. Adesso il tenente si sarebbe avvicinato e gli avrebbe chiesto del cadavere e della lettera, e se lui gli avesse detto che non sapeva nulla avrebbe detto ai due ragazzi di perquisire la casa, ma non ce ne sarebbe stato bisogno perché l'avrebbero trovata subito, lì sul tavolo: poteva almeno nasconderla, ma non aveva più osato toccarla.
Forse l'avrebbero portato in un campo e gli avrebbero sparato. Che bestia, pensò. Se era per finire così, poteva almeno andare in montagna come tutti quegli altri, invece di fare il vigliacco come sempre e nascondersi dietro i suoi polmoni malati e la sua gamba fessa. E mentre si diceva così continuava a fissare il tenente colonnello senza emettere un solo fiato, le dita serrate spasmodicamente sul manico del secchio.
Più si avvicinavano, più gli sembrava che il tenente colonnello lo guardasse quasi con sarcasmo, dietro quei suoi baffetti unticci che grondavano superiorità. Colse un'ombra di sadismo nel suo sguardo, nel suo sorriso untuoso che si allargava in prossimità della casa.
“Buongiorno, professore.”
Lo chiamavano sempre così, professore. Ma mica per rispetto, di solito. Sembravano volergli ricordare che lui non era un vero uomo, era un letterato, non sapeva nemmeno usare bene una pistola. Non lo capivano, quelli lì, che cosa significasse la cultura, capivano solo le detonazioni.
“...'Giorno, tenente colonnello,” riuscì a smozzicare Nate, quando ormai i tre soldati furono troppo vicini per rimanere in silenzio.
Si sentì d'un tratto molto tranquillo. Tranquillo di fronte a quelle armi esibite, che ciondolavano dai loro fianchi. Tranquillo davanti alle espressioni marziali, alle facce fiere e risolute. Tranquillo in faccia a tanta misera pretesa di grandezza. Forse Mika si sentiva anche lui così, prima di sparare.
“Stiamo andando a controllare un fienile, ci s'era nascosto qualcuno di quelli là,” annunciò il tenente colonnello, con l'aria di fargli un grande onore a svelargli quel fatto importante. Me ne fotte assai, tenente colonnello.
“E si scomoda persino lei?” s'informò educatamente. Quel bifolco lì, con il suo cappotto, pensava di prenderlo in giro. Da quand'era arrivato in paese il mese prima, Nate aveva avuto paura e non vedeva l'ora che se andasse, con la sua macchina lustra e la sua scorta di gaglioffi che alzavano la gonna alle ragazze appena lui si girava. Adesso lo trovò solo ridicolo. Che paura poteva mai fare uno che faceva ammazzare ragazzetti biondi e li lasciava morire davanti alle porte?
“Per passar la giornata, professore,” replicò tranquillamente l'altro, stiracchiando un sorriso condiscendente. “Vedo che ha pulito,” aggiunse poi, diretto, guardandolo dritto in faccia.
Nate trattenne il fiato e strinse la mascella per non cambiare l'espressione del viso. L'aria entrò più faticosamente nella sua trachea, ma lui rimase lì dritto col ginocchio che pulsava.
“C'era una macchia nera,” tagliò corto, buttando lo straccio nell'angolo del muro.
“Uno spiacevole contrattempo,” commentò il tenente colonnello, annuendo.
Lo spiacevole contrattempo l'avrai tu quando qualcuno ti verrà finalmente ad infilare una granata su per il retto, schifoso. Nate annuì, sbrigativo. Non si sforzò nemmeno di sembrare interessato a quello che gli veniva detto. Nemmeno finse qualche forma di rispetto. Sempre lì ad annuire e salutare cerimonioso, sempre ad evitare guai. Che vile che era stato.
“L'ho visto dalla finestra, stamane,” annunciò spiccio, raddrizzando le spalle. Non voleva più far finta di non essersi accorto del ragazzo. Se n'era accorto, un poverino era morto davanti alla sua porta e lui l'aveva visto, non l'avrebbe fatto diventare inesistente.
“Abbiamo mandato qualcuno a portarlo via.”
Nate annuì di nuovo, duro.
“E io adesso ho pulito.”
“Ha fatto bene, professore,” commentò il tenente colonnello, gli occhi un po' più incattiviti. Nate si accorse di nuovo che nemmeno lui gli piaceva, e ne fu molto contento. “Arrivederla.”
Il tenente colonnello fece un cenno col capo ai suoi due cani, e quelli via, subito dietro, su per la salita. Che poi perché a piedi, e perché il tenente colonnello, quando poteva mandare qualche altro segugio della sua muta.
Nate li guardò andare via con odio, pensando che ovviamente al tenente colonnello non importava nulla del ragazzo e della lettera: non era una spia, era solo un povero soldatino morto per niente. Quando i tre in uniforme furono spariti svuotò il secchio e tornò in casa, per mettere il minestrone sul fuoco. Quella sera si sentirono di nuovo le raffiche, per molto tempo e di nuovo vicine. Nate esitò per quasi un'ora, alla luce fiochissima di una candela nascosta sotto al tavolo, ché la fiammella non filtrasse dalla finestra. Alla fine tirò un gran respiro, avvolse le dita sulla carta e la schiuse guardando un'ultima volta il nome sulla busta. Un nome di donna.
La lettera era scritta fitta, le righe storte, quasi accavallate. La lingua non era la sua, ma un'altra che aveva studiato, tanti anni prima, e che ricordava un po'. Aguzzando gli occhi – quelli almeno li aveva buoni, era professore e sapeva per abitudine decifrare le calligrafie più improponibili – si avventurò tra le parole cercando di districarsi in quel vortice di vocali e consonanti sdrucciole, gutturali, mentre in sottofondo continuavano a rimbombare gli spari. Lesse incespicando, poco a poco, con le labbra strette davanti a ai denti come se li stessero nascondendo.

Mamma cara,
Spero tanto che riuscirò a farti arrivare almeno questa lettera. Non credo
– e ratta-tatta-tatta-ra - che te ne scriverò più. Ormai è quasi notte e domani andiamo all'attacco e sono sicuro che sto per morire.
Ho paura, mamma, anche se i miei compagni dicono
– e ratta-ta-tatta-tarara - che siamo eroi e che serviamo il paese. Ma io il paese lo volevo servire a casa, e fargli dei figli per la sua gloria. Invece morirò, mamma, e non ti posso nemmeno salutare.
Non avere paura per me, mamma, vedrai che non sarà
– e ratta-ratta-tatta-ta - così terribile e non soffrirò. Però ho capito che è proprio una cosa stupida e che loro sono quasi uguali a noi e non sanno su chi sparano, come me. Abbraccia – rattatatatatattarara- tara - il papà per me, e anche il piccolo che mi manca tanto. Vi voglio bene, mamma. Pregate per la mia memoria.
Tuo figlio, che vorrebbe tanto rivederti.


La firma non si capiva. Nate alzò lo sguardo dal foglio e si accorse di avere gli occhi gonfi di lacrime. Era così tanto tempo che non gli succedeva che se ne stupì apertamente. Quella forse si chiamava la lettera di un nemico, ma lui la chiamava l'ultima lettera di un figlio alla madre. Bastava guardare quante volte l'aveva scritta, quella parola, mamma, in così poche righe. Quasi invocandola, accarezzandola, chiamandola perché non lo lasciasse solo proprio alla fine. E invece solo era, morto su dei gradini della casa di uno che non l'aveva mai visto prima. E non era giusto.
E poi, quel “piccolo” - e Nate singhiozzò, d'improvviso – che doveva certamente essere il suo fratello minore. Il piccolo, e Nate ripensò alla faccia paffuta di Mika bambino e gli si strozzò qualcosa nei polmoni, mentre chinava la testa in avanti abbandonandosi a un pianto roco, convulso. Forse anche Mika era morto, da qualche parte, e aveva scritto una lettera in cui salutava suo fratello ma lui non l'avrebbe saputo mai. Pensò agli occhi neri di Mika fissi nel vuoto, come quelli del ragazzo sui gradini. Le sue dita strette intorno a un mozzicone di matita per scrivere una lettera che, nel migliore dei casi, sarebbe stata letta dall'estraneo che avrebbe trovato il suo cadavere. Era troppo, troppo disumano, e Nate si lasciò andare in avanti con la fronte per terra pensando a Mika nei boschi con la sua vecchia carabina e i pantaloni logori. Se c'era anche la sua, di lettera, Nate la voleva. La voleva disperatamente, voleva leggerla e toccarla sfregandoci le dita, come se fosse stata la testa di suo fratello da strofinare per dispetto.
Che stupida cosa, l'umanità.



Ci volle ancora una settimana.
Gli spari ormai si sentivano spesso anche di giorno. Provenivano dall'altro capo del vallone, di là del valico, alle volte, e altre volte erano di nuovo vicini, poi ancora lontani e così via. Il tenente colonnello sorrideva con meno superiorità, adesso, e non se ne andava in giro per il paese col petto all'aria ma stava rintanato in una soffitta. I suoi cani in uniforme diminuivano di giorno in giorno e anche le gonne delle ragazze si sollevavano molto meno spesso. Forse perché era cambiato il vento.
Nate rileggeva la lettera tutti i giorni, anche più volte di seguito. Era una povera letterina qualunque ma non riusciva a smettere, la teneva tra le dita delicatamente come un tesoro. Faceva finta che fosse quella di Mika, qualche volta, e nella sua testa sostituiva le parole con quelle che avrebbe scritto suo fratello.
Poi, un martedì mattina, andando a cercare un po' di farina di mais alla bottega, si accorse del fermento in piazza. La macchina lucida del tenente colonnello era lì parcheggiata, e i soldati la stavano caricando.
Nate vide Jona che sorrideva dalla soglia di casa, con le labbra storte da un lato. Jona era un brav'uomo, uno che aveva evitato la leva per non togliere troppe braccia all'agricoltura, e che forse ogni tanto mandava i sacchi sulle montagne. Il tenente colonnello l'aveva interrogato una volta, e Jona non si era visto in giro per qualche giorno, poi era ricomparso camminando piano piano, come se muoversi gli costasse fatica. Ma non aveva scucito una parola e l'avevano dovuto lasciar perdere.
“Che stanno facendo?” gli chiese, avvicinandosi.
Jona gli scoccò un'occhiata d'intesa, storcendo il naso.
“Niente, professore,” piazzò lì, ma non gli diede fastidio perché Jona pronunciava sempre quella parola con stima. “I topi abbandonano la nave.”
Nate si voltò di nuovo a guardare due soldatini affannarsi con delle valige.
“Il tenente colonnello?” s'informò, senza nemmeno sentirsi stupito.
“L'armata di liberazione sta risalendo la valle. Il fetente si sente il pepe al culo,” confermò Jona con soddisfazione, colorito.
Nate strinse le labbra, con quel bolo nero di odio che risaliva nell'intestino.
Quello lì, e gli altri come lui, avrebbero avuto salva la pelle. Non morivano, come i ragazzini che scrivevano povere lettere di addio alle loro mamme. Cadevano sempre in piedi, cambiando pelle come i serpenti. Strinse i pugni, rabbioso.
“E lo lasciamo davvero andar via così?” esclamò, vibrante.
Jona gli lanciò un'occhiata divertita, ma anche esplorativa.
“Lei che ne dice, professore?” commentò ironico.
Nate ascoltò il proprio respiro affrettato cercando di calmarsi. Sentiva su di sé gli occhi dell'altro, attenti, quasi trepidanti. Non doveva perdere la testa proprio ora. Era lì in mezzo alla piazza, c'erano i soldati e un sacco di paesani che fingevano di farsi gli affari propri osservando il procedere delle cose. Jona non era l'unico che stesse sulla porta, e su tutte le facce c'era lo stesso schifo.
Però mica si poteva lasciarlo lì ad appassire, pensò.
“Io dico,” gli sgusciò fuori dalle labbra, con una voce molto più alta e fremente di quanto pensasse, “che è un maledetto schifo!” scandì indignato, proprio in direzione della macchina lucida. “Che questi animali non se ne devono andare come se niente fosse!” insistette ancor più forte, quasi urlando.
Un soldato si voltò verso di lui, scrutandolo minaccioso.
“Cazzo vuoi?” ringhiò.
Ma Nate non ci fece proprio più caso.
“Io dico che questi schifosi vanno trattenuti qui finché non se li vengono a prendere per fucilarli!” gridò. Non badò nemmeno al fatto che Jona fosse scomparso dal suo fianco per sparire nella penombra della casupola, lasciandolo solo. “Vanno arrestati e condannati, assassini!”
Il soldato aveva portato la mano alla fondina, e altri due erano usciti dalla porta con le facce dure e minacciose, le mani alle cintole.
“Peggio per te, stronzo,” gli sibilò il primo, e fece sgusciar fuori la pistola. Nello stesso momento, poco dietro l'orecchio destro di Nate che quasi non vedeva più bene per l'agitazione, scattò il suono secco e metallico di un'arma caricata. Con la coda dell'occhio intravide la canna di un fucile puntato.
“Tu non spari proprio a un cazzo di nessuno, amico,” esclamò Jona freddamente.
Gli altri due soldati fecero per armarsi a loro volta, ma il primo li trattenne con un gesto brusco, nervoso. Nate impiegò qualche secondo a capire perché.
Sulla porta della sua cantina, il vecchio Rodo era comparso con la sua folta barba bianca impugnando una desueta baionetta con tanta naturalezza da risultare comunque inquietante. La Lula si affacciava in quel momento dall'accesso del cortile tenendo in mano ben in mostra una zappa, con l'aria sicura del fatto suo come se fosse stato un fucile mitragliatore, e i ragazzini, sul selciato, giocherellavano con le pietre facendole rimbalzare nelle manine veloci.
C'era un'aria di linciaggio.
“Chiudi quella cazzo di bocca,” sibilò il soldato nella direzione di Nate. E poi, imperativo, rivolto a Jona. “Consegna immediatamente quel fucile o ti spariamo.”
Il contadino non sembrò affranto da quella notizia. Nate, con stupore quasi infantile, lo guardò stringersi nelle spalle. E sparami, dai, sembrava dire. Suo cugino Gallo gli comparve di fianco, grosso e massiccio come un bue ben pasciuto, con la falce da mietitura stretta nelle manone poderose.
Non abbiamo bisogno dei loro fucili, pensò Nate. Non abbiamo bisogno dei fucili, perché se vogliamo, tutti insieme siamo più forti. L'aria gli entrò nella gola con una freschezza nuova, leggera.
Qualcun altro si stava avvicinando, armato degli oggetti più improbabili. Un paio di altri soldati sbucarono dalla porta, guardinghi e incazzati, ma si trattennero a studiare la situazione incerti sul da farsi. Senza istruzioni, sembravano indecisi. Pecore con la camicia.
“Cosa succede?” giunse infine la voce del tenente colonnello, che si affacciava alla soglia con espressione scocciata per poi rimanere inchiodato lì, sbalordito. Nate si tolse la soddisfazione di vedere la sua espressione tronfia e superiore farsi allarmata, il viso impallidì e persino i baffi sembrarono spiovere giù annichiliti.
“Te lo dico io cosa succede, manichino,” eruppe Nate con un'energia che non sapeva di avere. “Adesso, se vogliono, i tuoi sgherri se ne possono anche andare. Tu invece rimani qui con noi ad aspettare.”
“Ma non li ammazziamo?” s'informò Gallo, con aria un po' contrariata. Jona gli fece un cenno brusco perché tacesse.
“Il professore ha ragione. I cagnolini non ci interessano, ma il lupo ce lo teniamo qui e lo regaliamo agli amici.”
C'era sempre più gente, sempre più minacciosa. I soldati sembravano quasi spaventati, ora, e Nate nemmeno ascoltò le proteste sdegnose del tenente colonnello o i suoi ordini sbraitati ai sottoposti. Quando un giovane soldato tentò di puntare la pistola, un singolo colpo del fucile di Jona gli staccò quasi il braccio dalla spalla, e bastò questo a calmare gli animi. Nate sorrise senza più nemmeno guardare. Sapeva già che la macchina nera e lucida sarebbe andata via senza il tenente colonnello.
“Uno spiacevole contrattempo,” disse solo a voce alta, nella sua direzione.



Quando i liberatori entrarono in paese, trovando una mandria di contadini organizzati che tenevano sotto sorveglianza il tenente colonnello, Nate era in casa a dormire. Aveva fatto la notte di guardia e s'era coricato che era quasi mezzogiorno, lo svegliarono i gioiosi colpi di carabina sparati in aria dagli uni e dagli altri – soprattutto dagli altri, i nuovi arrivati – per festeggiare.
Nonostante il sonno e la fatica, scese anche lui in piazza come tutti per accogliere i graditi ospiti. Com'erano belli, rispetto ai fantocci in divisa, con i loro abiti sporchi e infangati, tutti strappati, le barbe ruvide e gli scarponi mezzi sfondati, com'erano belli con tutti quei colori addosso che tendevano ormai ad un unico lercio marrone grigiastro!
Nessuno badò a lui, dapprincipio. Poi vide Jona che discuteva animatamente con uno di quelli che sembravano essere i capi del drappello partigiano, e si avvicinò a lui con cautela. Jona, vedendolo, lo tirò verso di sé con una gran pacca.
“...E il professore, qui! E' stato lui, ieri, a lanciarci. Aspettavamo giusto l'occasione, e il professore si è messo a dire che...” raccontava infervorato, con ammirazione. Era evidente che non si capacitava di come l'uomo dei libri, con rispetto parlando, se ne fosse saltato su a quella maniera.
L'uomo di fronte a lui, con una gigantesca barba in cui ammiccavano due foglioline secche incastrate tra i nodi, lo scrutò con espressione pratica e spiccia, ma non priva di una scintilla di simpatia verso di lui.
Poi gli ospiti avevano fame, e le donne si misero a preparar verdure bollite e sfornar pane come se ci fosse stata da sfamare una città intera. L'uomo delle foglioline nella barba, intanto, che s'era presentato come Istrice – un insolito nome di battaglia, supponeva lui – s'era messo a far domande a Nate sul tenente colonnello e sul suo operato, dopo che alcuni suoi compagni se lo furono caricato su una furgonetta sgangherata per sparire verso valle. Al terzo bicchiere di vino casereccio, dal tenente colonnello si passò a parlare di città. L'Istrice, gli rivelò, era stato il fortunato padrone di una bottega di libri. Nate se ne sentì evidentemente accomunato come a un'anima sorella. Lo stesso Goethe, si disse, con tutte le sue affinità elettive non poteva far meglio.
Allora lui si mise a raccontare di quand'era professore, e così, e cosà. E raccontò di come lo chiamavano sempre i suoi studenti, con quel tono intimidito ma non ostile, perché veramente non era stato un insegnante crudele. E fu solo dopo essersi fatto ripetere il suo cognome che l'Istrice aggrottò la fronte impolverata ed annuì qualche volta tra sé.
“Avevi già sentito parlare di me? Magari qualche tuo nipote è stato mio allievo,” ipotizzò Nate.
“Può darsi, non mi ricordo bene,” tagliò corto l'altro. “Ma di', mentre questi fan bisboccia bisogna che si pensi a organizzarci. Dammi una mano un po' con certe missive che devo mandare ai comandi, tu che sei profèsur.”
Nate lo seguì di buon grado, standogli appresso mentre lui impartiva bonarie e ferme istruzioni a destra e a manca, alzando ogni tanto un po' la voce. All'uno diceva di non scordare di cambiare le guardie giù al fondo della strada, che anche quei poverini potessero riposarsi, all'altro urlò di non fare il furbo a confiscar la farina.
“E chi è che va su alla base? Il Volpe, mi serve il Volpe!” sbottò poi, imperativo.
“Il Volpe ancora non si può muovere,” gli fece notare un altro, un ometto smilzo e brizzolato con intensi occhi verdognoli, che Nate aveva sentito interpellare come “Stecco”. “Il suo braccio, lo sai.”
“Chi è che sale alla capanna?” ripeté il primo.
“Io, all'alba, con un paio d'altri,” confermò lo Stecco.
L'Istrice si cavò fuori dalla tasca logora un qualcosa che poteva somigliare indifferentemente a un foglio strapazzato o a un cadavere di topo, prima di scriverci su qualcosa sbrigativo.
“Portagli questo,” intimò.
Nate lo seguì nella cucina sgangherata di Jona, cortese ospite, per dargli una mano a stendere le sue lettere. Poi cenò in piazza con tutti quanti, dispiacendosi di non aver mai avuto voglia di avvicinarsi ai compaesani che, con tutti i loro limiti, alla fine erano brava gente. Quando il sole fu tramontato da un pezzo, rendendosi conto di non poter passare un'altra notte in bianco, si congedò e se ne andò a dormire come un sacco.
L'indomani, i “salvatori” si preparavano già a proseguire la marcia e quando lui arrivò in piazza, che era quasi mezzogiorno, erano intenti a risistemare tutto e preparare zaini e carretti. L'Istrice lo accolse con un gran sorriso, spiegandogli che aspettavano la camionetta che tornasse giù per ripartire tutti insieme entro sera. Nate diede una mano a preparar loro un po' di provviste, e stavolta le raffiche di fuoco che si sentivano lontanissime non facevano più così paura.
La camionetta ritornò che iniziava appena a calare il sole. Era già tutto pronto e soltanto più qualche chiacchiera e qualche risata risuonavano sulla piazza che andava svuotandosi. Nate stava scrivendo un ultimo rapporto con l'Istrice quando lo Stecco li raggiunse svelto.
“Volpe ha voluto venir giù,” annunciò un po' sorpreso, senza levargli di dosso quegli occhi penetranti. “E' rimasto seduto in furgone, non sta mica bene. Secondo me era meglio se stava là.”
“Da solo nel bosco con quei due tonti di guardabaracca,” osservò l'Istrice scettico. “Figurati. E poi abbiamo qua il professore, ci pensa lui.”
Nate s'irrigidì, inquieto.
“Non sono dottore,” osservò atterrito. Altro sangue no, non lo poteva sopportare.
“Meglio te che uno zappatore,” lo blandì l'Istrice, tutto inspiegabilmente allegro. “Vai, vai.”
Lo spinse appresso allo Stecco, verso la furgonetta. C'era qualche altro partigiano lì intorno che parlava a voce bassa, rispettosa, col ragazzo seduto davanti, afflosciato sul sedile. Nate si accorse che quello aveva un braccio proprio malconcio, fasciato e gonfio, avvolto in bende insanguinate. Le dita della mano, considerò con un moto di orrore e di pena, iniziavano a farsi blu. Cancrena, pensò.
Poi sollevò lo sguardo sul suo viso, e non pensò più niente di niente, sgranando gli occhi e rimanendo senza fiato, basito, per qualche secondo.
“Minchia sei vivo,” esalò poi.
Nate non diceva mai parolacce. Era un retaggio dell'essere professore, una questione di coerenza. Non potevi pretendere di insegnare la bella lingua ai ragazzini se poi parlavi peggio di loro. Era un fatto di principio, e anche che la volgarità lo ripugnava.
Tanta era la stranezza del sentirgli pronunciare quel “minchia” tanto istintivo, difatti, che nonostante fosse evidentemente febbricitante, stordito e mezzo dissanguato, persino Mika ebbe un lampo di stupore negli occhi scuri.
“Mio fratello?” mormorò a fatica, riconoscendolo. “Sei proprio tu, Nate? Minchia?”
Santo cielo.



All'ospedale dissero che la mano bisognava amputarla per forza. Il resto del braccio si poteva salvare, ma la mano era andata. Nate rimase lì ad aspettare davanti alla porta, anche se non aveva più paura del sangue. Non di quello lì, per lo meno, che era uguale al suo.
Aspettò con pazienza, senza fretta, anche se sapeva che l'amputazione poteva andar male. Ma era sicuro che non sarebbe successo, ormai, e che Mika sarebbe uscito di lì con una mano in meno, sì, ma vivo e vegeto.
Se lo riportò a casa dopo due giorni, venne a prenderli Jona con un camioncino così scoppiettante che sembrava carburare a merde di gallina. Per tutta la settimana Nate gli preparò brodini caldi, col paese che andava e veniva portando pane, poveri dolci di castagne, bottiglie di rarissimo vino “per ridare sangue all'ammalato” e uova fresche. Le gesta del Volpe s'andavano diffondendo di bocca in bocca e lo volevano veder tutti. Lui parlava poco, a fatica, ma appena poté cominciò a sventolare il suo mozzicone di braccio ripetendo che poteva finalmente farsi dare una medaglia.
“Hai visto, ora sono invalido anch'io,” rise piano all'indirizzo del fratello, indicando col moncherino la sua gamba zoppa.
La sera, quando restavano soli, Mika raccontava poco a poco le sue peregrinazioni sulle montagne. Dal nord, quando aveva disertato per rifugiarsi coi montanari, s'era messo in testa di ridiscendere piano piano verso la regione d'origine, senza sapere affatto che ci avrebbe trovato anche lui. Il braccio gliel'avevano fatto saltare in uno scontro a fuoco pochi giorni prima, e se n'era rimasto nascosto nella casupola in cui stava facendo base con la squadra aspettando di poter andare in ospedale senza farsi arrestare. Quando l'Istrice gli aveva scritto che nel paese appena liberato c'era un professore che diceva di chiamarsi così e così, Mika s'era fatto caricare sulla furgonetta di peso, ché ormai delirava di febbre.
“Non ero sicuro che fossi tu, perché lo Stecco mi ha detto che il professore aveva preso parte alla rivolta,” gli spiegò, senza celare una certa curiosità per il suo gesto.
E allora, Nate abbassò lo sguardo.
Era rimasto vigliacco e zitto per tanto tempo, quando avrebbe dovuto ribellarsi molto prima. Il giorno in cui avevano preso il tenente colonnello, mentre parlava nella piazza, Nate non aveva avuto più paura delle armi o delle divise, e si rese conto che avrebbe dovuto smettere di averla molto prima. Allora si alzò dalla sedia sistemata accanto al giaciglio del fratello e aprì il cassetto delle credenza, estraendone l'involto con la busta giallognola.
“Un po' di giorni fa è morto un soldato nelle sparatorie. Si è trascinato a morire proprio davanti la porta di casa, e aveva questa lettera,” spiegò, mostrandogliela.
Mika fece scorrere gli occhi sul foglio con il viso che si faceva ostile, sprezzante.
“Uno di quei cani invasori,” scandì rabbioso.
Nate scosse piano la testa, senza parlare.
“L'ho tradotta,” si limitò a dire.
Mika strinse le labbra, malevolo.
“Sempre un cane è,” ribadì. E poi, più pensoso, “quand'è stato?” aggiunse.
Nate fece mente locale, riflettendo rapidamente. Era successo tutto così in fretta che non riusciva bene a rimettere in ordine fatti e avvenimenti.
“Tre giovedì fa,” annunciò infine.
“La notte che mi hanno sparato,” aggiunse Mika freddamente.
Rimasero zitti tutt'e due, pensando forse la stessa cosa. Magari era stato proprio quel ragazzo lì, quello straniero col suo drappello accampato da qualche parte nella valle, che si era trascinato disperatamente fino alle soglie del paese a chiedere aiuto mentre moriva, a fargli esplodere il braccio.
“E' una lettera alla famiglia, senti,” fece infine Nate, dopo quel lungo silenzio. “Mamma cara...”
“Me ne fotto,” ringhiò il fratello, brusco.
“No, senti,” insistette Nate pacato, come parlando con i suoi studenti. Era dodici anni più giovane di lui, Mika. Così tanti. “E' importante, ascolta.”
Si schiarì la voce, prendendo fiato, con una pausa significativa durante la quale Mika lo guardò riluttante, poi cominciò a leggere a voce alta, scadendo le parole con la giusta enfasi, come quando in aula declamava brani dei grandi romanzi ai suoi studenti. Mika non lo interruppe finché non ebbe finito, e quando lui ritornò a guardarlo aveva abbassato gli occhi sulle lenzuola che gli coprivano le gambe, con la fronte corrugata, gli occhi suo malgrado appannati. Nate prese un respiro lungo.
“Quando l'ho letta, ho pensato che magari ne avevi scritta una così anche tu, e che noi non l'avremmo mai ricevuta. Allora ho pensato che non volevo più permettere tutto questo. Perciò ho detto quelle cose al tenente colonnello.”
“Bel cane anche quello,” sbottò Mika, brusco. Poi deglutì. “E la mamma?”
Nate sorrise.
“Sono riuscito a farla passare oltre il confine, da sua sorella, prima che le cose si mettessero davvero male. Le ho già scritto che sei qui e che sei salvo, ma le ho detto che la faremo tornare tra qualche mese, quando la situazione si sarà calmata.”
Mika annuì sollevato, passandosi la mano sugli occhi ormai lucidi.
“Questo ragazzo...” riprese Nate, sollevando la lettera.
“Era un cane invasore!” ribadì Mika, ma senza più quel fervore spontaneo.
“Se non fosse morto, magari io non avrei fatto niente e chissà, nemmeno Jona. Magari i tuoi compagni avrebbero impiegato due giorni a prendere il paese e andare avanti, e tu saresti morto in quella capanna.”
Mika non disse più niente, rimanendo solo a testa bassa, corrucciato, sembrando ancor più giovane di quello che era. Poi sbuffò.
“E quindi?”
“E quindi niente,” rispose Nate, senza sapere bene cosa dire. “E' solo che anche lui era il figlio e il fratello di qualcuno.”
Mika allora tornò a guardarlo, con quegli occhi adorati che lui credeva di non vedere mai più. Se la sarebbero cavata anche senza la sua mano, fintanto che lui c'era ed era vivo. Poi il ragazzo sospirò rumorosamente, scuotendo la testa con rassegnazione artificiosa, quasi fingendo di dargliela vinta.
“Cazzo di intellettuale che sei,” borbottò bizzoso. Poi aggrottò leggermente la fronte e lo fissò ancora per qualche secondo, adesso serio, calmo. “Credo che dovresti spedire la lettera a quella donna, Nate.”
Lui si sciolse in un sorriso d'intesa, quasi commosso, prima di annuire. Ci aveva pensato anche lui, e adesso ne era proprio sicuro.



Margarita cucinava sempre la carne per il suo ragazzino, il giovedì. Anche se non bastavano i soldi nemmeno per il pane, lei faceva in modo che il giovedì comparisse in tavola la carne, per fare finta che andasse tutto bene almeno col piccolo. Uno di quei misteriosi miracoli della maternità che non si possono comprendere.
Quel mattino stava facendo bollire un tocco di bue che bastava a malapena per una porzione minuscola e che lei, con salse, ripieni e sughetti, avrebbe trasformato in un pasto per tre persone. Quando sentì suonare alla porta corse fuori, mezza ansiosa, mezza terrorizzata. Ogni volta che bussavano, aveva sempre paura che fosse qualcuno dell'esercito che le veniva a dire che Leni era morto, e al tempo stesso sognava che fosse proprio lui che l'aspettava sulla soglia per saltarle al collo, con i suoi occhioni azzurri e il suo bel sorriso.
Invece, era solo il postino.
“Buongiorno,” lo salutò neutra, cercando di non mostrare la propria agitazione.
“Salve, signora,” fece l'uomo, con un sorriso partecipe. “E' arrivata dall'estero,” aggiunse, mostrandole una bella busta chiara, spessa.
Margarita quasi gliela strappò di mano, dicendosi che magari Leni era riuscito finalmente a farle arrivare notizie dal fronte. Ma dopo aver guardato il destinatario, delusa, realizzò che quella non era la grafia di suo figlio. Però non c'era nemmeno il sigillo dell'esercito.
“Grazie,” mormorò, prima di tornare in casa asciugandosi una mano e poi l'altra nel grembiule.
Aprì la lettera delicatamente, cercando di non strapparla. Dentro c'erano un biglietto scritto a mano e un'altra busta, questa logora e stracciata. Il cuore le rimbalzò nel petto, frenandole il respiro mentre leggeva il biglietto.

Gentile signora,
Questa lettera le appartiene di diritto e, nonostante che io e lei forse dovremo considerarci nemici, non mi permetterei mai di privarla di quello che è suo. Ho trovato la busta addosso ad un poveri giovane che, purtroppo, è venuto a lasciarci proprio davanti alla mia porta. Non ha sofferto e la sua fine è stato rapida, quando l'ho trovato non c'era più nulla da fare. Mi scuso per avere letto quella che di diritto apparteneva a lei sola, ma non sapevo di cosa si trattasse.
Ho un fratello che ha circa la stessa età di suo ragazzo e che, per mia fortuna, è tornato salvo. Ho pensato che se fosse stato diverso, avrei voluto almeno avere il suo ultimo saluto. Per questo, li spedisco quello di suo figlio.
Con tutte le mie condoglianze, signora.
Suo,
Nate Dale.


Margarita piangeva già silenziosamente dopo le prime righe zeppe di errori, scossa da singhiozzi silenziosi e pieni di pena. Quando aprì la seconda busta e riconobbe la scrittura di suo figlio quei singulti si fecero violenti e rumorosi e la vista le mancò più volte mentre scorreva le righe, aggrappata allo spigolo del tavolo con il corpo che sussultava penosamente. Arrivata in fondo, non poté fare altro che stringersi al petto quel povero foglio strapazzato con foga, per proteggerlo dalle proprie lacrime e lasciare sfogo allo strazio, accasciandosi sul pavimento. Così la trovarono, più di mezz'ora dopo, figlioletto e marito. Faticarono a capire cosa stesse succedendo, perché Margarita singhiozzava tanto che non poteva parlare e a malapena respirava, ma capirono istantaneamente entrambi, con un moto di panico, di cosa doveva trattarsi.
Dopo che lei riuscì a passare loro la lettera, infine, la campana di mezzogiorno li sorprese tutti e tre singhiozzanti su quel pavimento nudo, mentre la carne dimenticata strabolliva stoppacciosa, sul fuoco.



Nate fischiettò allegramente, risalendo la salita verso casa nella penombra del crepuscolo. Non gli succedeva da così tanto tempo che se ne stupì, e rise di cuore, da solo in mezzo alla strada.
Quel pomeriggio in città gli avevano detto che sarebbe stato un onore restituirgli la sua vecchia cattedra di professore di lettere, ora che le cose si stavano sistemando. Nate aveva risposto che ci avrebbe pensato su, perché in realtà voleva sapere se Mika intendesse tornare alla vita cittadina o restare in campagna, e lui stesso non sapeva bene cosa pensarne.
La loro madre sarebbe arrivata alla fine della settimana, ed entrambi si stavano adoperando come potevano, tra gambe zoppe e mani mozze, per rendere la casupola accogliente e ordinata. E aveva appena ricevuto una lettera meravigliosa.
Quasi materializzando il suo pensiero sull'adoperarsi come si poteva, intravide la sagoma di Mika ancora nell'orto a quell'ora. Senza fare rumore si trattenne a guardarlo accanto al cancelletto sbilenco.
Con quella cocciutaggine tutta sua, tipica, Mika si stava arrabattando alacremente intorno a un'aiuola nuda, nel tentativo quasi eroico di dissodarne il terreno per seminare con un solo braccio. La zappa andava su e giù pesantemente, come cadendo ad ogni colpo, e a Mika richiedeva uno sforzo doppio risollevarla per dare il successivo. Ma aveva l'aria concentrata, le guance arrossate e sembrava finalmente di ottimo umore.
“Magari entro agosto avrai finito,” commentò Nate scherzosamente, partecipe.
Mika storse il naso, senza nemmeno voltarsi verso di lui.
“Vai a cagare,” rispose piccato, non riuscendo a trattenere l'ombra di un sorriso.
Nate ridacchiò, avanzando verso di lui.
“Mi è arrivata una lettera,” annunciò, estraendo la busta dalla tasca della giacca.
“Buon per te. Io sto aspettando la mia medaglia al valore,” lo rimbeccò il fratello, agitando il moncherino con eloquenza.
“Arriverà anche quella,” lo rabbonì Nate. “Ma ho qui qualcosa di migliore.”
Mika lo osservò incuriosito, appoggiandosi alla zappa puntata a terra mentre lui, con gesti solenni, estraeva il foglio e lo dispiegava davanti a sé, schiarendosi la voce prima di leggere.
Caro signor Dale,” attaccò lentamente, “mi scusi se ho permesso di cercare suo indirizzo. Mi chiamo Codi e sono fratello di suo ragazzo morto con lettera. Li volevo dire che mia mamma e papà si uniscono con me nel ringraziare di aver spedito a noi la lettera di mio fratello Leni.” Si interruppe per qualche istante, per impedire che gli tremasse la voce. “Li prego di crederci che siamo veramenti molto contenti che almeno il suo fratello sta bene. Con affetto, Codi Gabo.
Nate alzò gli occhi lucidi dal foglio verso il fratello, ma quello aveva abbassato la testa verso terra, con le spalle che sussultavano piano. Nate rimase immobile per qualche secondo, senza sapere bene cosa fare. Sin da quando era ragazzino, e Mika un bambino molto piccolo, lui era sempre stato il fratello sensibile nonostante fosse il più vecchio, quello che a volte si commuoveva, quello empatico, quello più sentimentale. E Mika, invece, era la piccola roccia, il tipo d'azione, ragazzo tutto d'un pezzo dal carattere roccioso.
Da quando era tornato a casa dalle montagne, Mika non aveva dato mostra per un solo secondo di aver subito un qualche tipo di trauma, nonostante non potesse essere che così. E Nate realizzò in quel momento che suo fratello non aveva solo perso una mano, ma anche qualcos'altro. Che aveva visto morire e ucciso decine di persone per combattere qualcosa che non dipendeva da lui, e che non sarebbe mai più stato lo stesso.
“Mika...” mormorò, andandogli accanto e poggiandogli la mano sulla testa.
“E' finita, no?” singultò il ragazzo con slancio. “E' finita, vero?” aggiunse, quasi supplice. Volpe, il guerriero. Ventun anni.
Nate sospirò tra sé, abbracciandolo con imbarazzo e stringendo affettuosamente la sua spalla sinistra, quella che finiva al polso, con delicatezza.
“Speriamo, Mika,” sussurrò, di cuore. “Speriamo proprio.”






__________________________________





Noticine

Ci sono un paio di precisazioni che vorrei fare. Una serie di elementi della storia si sono incastrati da sé come per caso, ma in realtà mi sono venuti fuori da dentro.
Ci sono numerosi riferimenti alla cultura e all'istruzione – il mestiere di Nate, quello dell'Istrice, i vari professore, le lingue straniere zoppicanti. Questo perché da intellettualoide spocchiosa non posso fare a meno di ritenere che la cultura elevi e renda superiori. In quest'epoca in cui sapere e istruzione vengono sviliti fin quasi al degrado dalla classe politica, non solo nel nostro paese, volevo ribadire l'importanza della cultura e la sua capacità di ingigantire gli animi.
Sicuramente questa storia deve molto a Calvino, particolarmente a “Il sentiero dei nidi di ragno”, e non perché io voglia azzardare un paragone troppo audace – me ne guardo bene – ma perché semplicemente c'è un po' dell'ispirazione di quel grande romanzo in questo raccontino senza pretese.
Per concludere, sono conscia che ci siano una quantità di elementi improbabili e del tutto irrealistici nella storia. Non ho avuto il tempo di documentarmi a dovere per cercare di costruire una dinamica credibile, soprattutto per quanto riguarda le figure del tenente colonnello e dei suoi uomini o dell'avanzata dei liberatori e la loro struttura. Mi piacerebbe allargare un po' questo racconto e arricchirlo di modo da renderlo più organico, ma per il momento resterà così, un abbozzo.



Edited by suni - 31/3/2011, 14:45
 
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Meissa.
view post Posted on 22/3/2011, 01:59




Uhm, dunque, ti promisi che l'avrei scritto tipo trenta secondi fa, ergo provo a scriverlo, un commento.
Spargiamo amore sulla strofa iniziale che introduce il racconto, perché sì, perché è una gran canzone e perché si accompagna deliziosamente bene.

Se mi permetti salterei la parte in cui elogio il tuo modo di scrivere, il tuo stile meraviglioso e l'utilizzo di un lessico che si accompagna perfettamente al racconto. L'ho fatto comunque, vero? Vabbe', che ti aspettavi, che incensatrice sarei, altrimenti?
Dunque, la lettera, quella lettera così meravigliosa, così bella, così tanto umana è il motore della storia, della ribellione del professore, e sai, sembra naturale che lo sia, perché viene quasi da chiedersi come si possa trovare una lettera così e restare impassibili, tenere ancora il capo chinato, perché be' è la lettera che potrebbe scrivere chiunque.
Lo so che qui si parla di una guerra, però per ogni morto, di cui magari non si ricorda nemmeno il nome c'è una famiglia, una madre, un padre, un fratello, degli amici, e non ci si pensa.

E' stato bello il ricongiungimento tra i due fratelli, perché un po' di felicità serve sempre, e come hai sfruttato il confronto tra i due su il ragazzo della lettera "l'uomo" e il "nemico". E' un tema incredibilmente delicato e serio, ma non so come hai fatto è scivolato via liscio, con leggerezza e be', quando la lettera è arrivata a casa della madre, ho pianto con lei, perché è una storia intensa, e perché è morto un figlio per niente e nonostante tutto c'è qualcuno che ha ritenuto degno che lei sapesse che cosa fosse successo a suo figlio e che cosa le volesse dire prima di morire, e non è una cortesia da tutti, anzi.
Il professore mi piace, come personaggio, perché è così umano, e al mondo ora come ora servirebbe molta più umanità di quella che ce n'è.
 
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Laly La Stronza
view post Posted on 23/3/2011, 18:54




Perché alla fine delle tue storie devo sempre piangere?
Ti odio.
E ti adoro.
E' meravigliosa...
 
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Rohchan
view post Posted on 23/3/2011, 21:23




...non sarebbe esattamente corretto e gentile dirtelo, ma...
io spererei che restasse un abbozzo. Se la arricchisci, la allunghi, la rendi più reale, non ce la si può fare. Già così sto piangendo come una bambina, perchè è terribile e vera e dura e cruda e forte e violenta e fa un male cane.
Ed è così che va, sempre. Chi ci viene contro è cattivo, è straniero, è una carogna, ma a casa ha mamma papà fratelli sorelle fidanzate amici ed una vita che qualcun altro ha pensato bene di portargli via per farne un eroe.
A morire sulla porta di casa di uno straniero che non sa nulla di te e che se ti becca vivo magari ti spara pure, perchè sei diverso.
Ohmamma.
Ha ragione Laly. Sei destabile, e stratosferica.

E' davvero devastante, più del solito perchè questa è storia vera, e bellissima, perchè nonostante tutto, anche tra lo schifo e le brutture e il freddo e gli orrori, l'umanità riesce a sopravvivere.
Somma...porca di quella...
Vado a soffiarmi il naso e lavarmi il viso, vah...
 
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Rika88
view post Posted on 24/3/2011, 18:09




CITAZIONE
io spererei che restasse un abbozzo. Se la arricchisci, la allunghi, la rendi più reale, non ce la si può fare. Già così sto piangendo come una bambina, perchè è terribile e vera e dura e cruda e forte e violenta e fa un male cane.

In linea di principio, sono d'accordo con Rohchan. Tirarne fuori un racconto più lungo potrebbe essere molto rischioso, perchè già in queste 7458 parole (contate!) c'è tutto: si finirebbe magari per dare alla storia una connotazione spaziale e temporale, oppure per far pesare la mancanza di esse, e in entrambi i casi si perderebbe qualcosa, perchè un pregio enorme di questo racconto è proprio la sua universalità - pur rispecchiando abbastanza la guerra tristemente nota di cui tu dicevi all'inizio. Non importa sapere chi sono, chi sono stati Nate o Leni, Mika o Margarita, perchè la storia (quella con la minuscola, quella anonima dei paesi di campagna, dei soldati semplici e delle persone comuni) ne è piena di personaggi simili, totalmente ignorati dal libri e relegati al più a qualche racconto. Orale o scritto.

Detto questo, quoto per intero Laly :cry:
 
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Elos
view post Posted on 29/3/2011, 16:28




Concordo con Roh, qui sopra, lasciala così com'è, con i nomi improbabili e la storia spezzata, ché tanto le cose importanti emergono lo stesso.

Nate rimase lì ad aspettare davanti alla porta, anche se non aveva più paura del sangue. Non di quello lì, per lo meno, che era uguale al suo.

Non so perché, ma ero riuscita a tenermi tranquilla fin quasi alla fine e invece su questa frase mi sono messa a piangere. Guh.
E' bella la figura del professore, perché è una persona normalissima, uno in un milione, di quelli che sono un po' vigliacchi e un po' spaventati, ma che hanno un cuore enorme che in queste situazioni non ci si trova. E' bella l'aggressività rozza del fratello, che ha appena perso una mano ma proprio non ce la fa a restare duro - era un fratello anche quell'altro.

Mi è piaciuta da morire la scena della madre nella cucina. Mi ha ricordato molto qualcosa di Silvana de Mari, con questa meravigliosa ode in prosa alle capacità materne, che nel mezzo del tutto restano sempre e comunque mamme.

Veramente bellissima, suni. La frase finale spezza un po' la speranza che si era andata costruendo di paragrafo in paragrafo, e così sembra ancora più reale.
 
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5 replies since 21/3/2011, 18:48   147 views
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