La tana

Alice guarda i lupi, Alice ha venticinque anni, un cane, un migliore amico perfetto e un lavoro che le piace. Alice sbaglia solo una cosa, perde tempo a farsi sbranare dai lupi.

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suni
view post Posted on 11/7/2010, 22:43




Siore e siori,
Vi sottopongo quanto segue con incertezza. Trattasi dell'inizio di un racconto originale da me concepito e parzialmente scritto qualche mese fa. Ma ne manca qualche pezzo qui e là ma nel complesso la struttura della storia è già stesa. Ora, siccome tentenno sull'idea di finirla o meno, ve la propongo per vedere che ne pensate.
Tengo a precisare una cosina: il termine "topocane" appartiene ad L_Fy.
E non ho altro da dire, su questo argomento (cit).
Buona lettura.

(Ah, quasi dimenticavo... Ovviamente il titolo è ripreso da "Alice guarda i gattI", di De Gregori.)


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Alice si buttò oltre la porta vetrata dell’ufficio come se l’avessero lanciata con la fionda. Fortunatamente suddetta porta era aperta, fattore che lei non aveva pensato di verificare, altrimenti si sarebbe stampata sul vetro come un adesivo in forma umana, per il gran sollazzo delle altre trentun persone che lavoravano nell’open space. L’aveva fatto, una volta, e la risata squillante di Milena l’aveva inseguita per tutta la mattinata.
Nessuno parve sorprendersi di vederla comparire trafelata, coi riccioli biondi sparati in tutte le direzioni e la giacca ingarbugliata addosso: nei sei mesi trascorsi da quando aveva iniziato a lavorare lì ci s’erano abituati tutti. Carlo Mauri le lanciò un brontolio di saluto e Luisa continuò a sorseggiare il caffè con un cenno noncurante, mentre il caos della redazione proseguiva indisturbato. Alice gettò lo sguardo sull’orologio a muro sopra la fotocopiatrice con un sospiro di sollievo: le otto e trenta spaccate, ce l’aveva fatta di nuovo.
“Mazzini ti aspetta in riunione alle nove al secondo piano,” la informò Milena solerte.
Alice la studiò di sottecchi, annuendo.
“Buongiorno a tutti,” esordì, mentre scannerizzava il suo debardeur lilla scollato, la sua bella gonna nera e i morbidi stivali a mezza gamba. Al collo della collega ciondolava una collana d’argento e il suo trucco era impeccabile come sempre.
Lei, invece, sembrava essere appena passata sotto un treno.
“Ciao, Ali. Il tuo caffè,” la raggiunse la voce rauca di Michele, comparso dal nulla alla sua sinistra con una tazza in una mano e una bozza di annuncio formato A3 nell’altra.
“Grazie,” sospirò lei, impossessandosi della preziosa bevanda. Michele le gettò un sorriso sghembo, che misteriosamente provocò un ulteriore abbassamento della scollatura di Milena e sospiri femminili generici.
“Prego,” rispose, distratto. “Ah, Ali, sei passata a spedire il dossier di Levori ieri pomeriggio?”
Alice sgranò gli occhi, atterrita. Il dossier di Levori. Il dossier che Gianfranco Levori, il loro più autorevole e capriccioso collaboratore, pretendeva di avere entro la sera precedente per poter scrivere il suo articolo. Il dossier che Mazzini, direttore di testata, le aveva intimato tassativamente di spedire entro le quattordici del giorno precedente, pena la decapitazione.
Il dossier che si era dimenticata di prendere uscendo dall’ufficio e di cui aveva totalmente rimosso dalle memoria l’esistenza fino a quel preciso momento.
“I-io…” boccheggiò agghiacciata.
La sua espressione da balena arenata sulla spiaggia dovette intenerire il suo migliore amico, che sventolò l’A3 con indulgenza per poi sogghignare lievemente.
“Lo so. L’ho spedito io ieri in pausa pranzo, tredici e cinquantasette precise.”
Alice giunse le mani in un gesto accorato, rischiando così di rovesciare il caffè rimasto, e si sporse verso di lui di slancio.
“Grazie, Michi!” esclamò grata. “Ti giu…”
“Malfini, ci sono quelli di Friends of Earth al telefono,” s’intromise Paolo, grafico, sbucando dalla soglia dello stanzino. Michele gli gettò un cenno affermativo, sorrise un’ultima volta ad Alice e si voltò per dirigersi con calma verso la porta del suo regno, con il solito codazzo di sguardi femminei puntati sul sedere.
E lei si precipitò alla scrivania, per controllare la posta elettronica e finire il suo caffè prima che Mazzini, secondo il suo costume, trovasse un pretesto qualunque per mangiarsela viva.
Un’altra giornata come tante, al SolidEco.





Alice guarda i lupi

Primo





Mazzini amava sottoporre tutti i suoi subalterni a ferocissime lavate di capo e ad una disciplina ferrea, ma nulla e nessuno, tantomeno una legge dello Stato, avrebbe potuto impedirgli di fumare la pipa in ufficio. Quindi nella redazione del SolidEco, vendutissimo inserto mensile di ecologia e solidarietà del maggior quotidiano nazionale, vigeva la regola tassativa di fumare ovunque e in qualunque momento lo si desiderasse.
Per quanto il provvedimento potesse sembrare in sé un controsenso, Alice era genericamente sollevata per quella particolarità del suo luogo di lavoro; e specialmente quel mattino, quando alle undici, dopo che lei e le tre colleghe della sezione nazionale furono uscite dal patibolo, si piazzò in corridoio con una fida sigaretta, tirando il fiato. Da quando s’era iniziato a preparare il numero speciale in uscita due mesi dopo, il direttore era ancor più brusco ed esigente del solito.
Ma Mazzini dopotutto non era un capo malvagio. Distante e imparziale, trattava tutti con la medesima asprezza, convinto che nulla più del terrore convincesse un giornalista o un redattore a fare presto e bene il suo lavoro. Alle volte poteva sembrare un po’ paternalista e vagamente misogino, ma prendeva il proprio mestiere estremamente sul serio e riteneva la libera informazione un dovere morale. Sapeva aprirsi all’innovazione ed era stato lui stesso a proporre a Paolo Gerni e Michele Malfini, brillanti artisti grafici ideatori di un accattivante opuscolo settimanale d’informazione sociale disponibile anche sul net, di entrare nella truppa del suo giornale.
Michele e Paolo si occupavano della grafica della rivista e di tutto quel che era telematico; la mole di lavoro nelle mani di due persone più un part time, per centosessanta pagine mensili, era enorme, ma i due ragazzi erano pagati bene e non si lamentavano mai. Michele, anzi, trovava alle volte il tempo di riempire i buchi nelle differenti sezioni del SolidEco con redazionali pungenti e scorrevoli, ma per lo più Mazzini lo censurava.
“Malfini,” diceva, “tu sei grafico: fammi il grafico, cortesemente.”
E Michele faceva il grafico. Aveva sognato di mettere insieme un giornale tutto suo, che avrebbe chiamato Decrescita, ma il SolidEco era la più autorevole voce nel campo e già rischiava a mesi alterni la chiusura per decisioni dall’alto, certo non era l’epoca di lanciarsi in imprese eroiche.
“Che strigliata, eh?” commentò Elena, riscuotendo così Alice dai suoi pensieri. Si accese a sua volta un sigaretta, con un sorriso.
“Prevedibile,” fece Alice, filosofica. Le sorrise di rimando, poggiandosi al muro del corridoio. “Com’è andata col tuo affascinante dottorando in fisica, ieri sera?” aggiunse sorniona.
Elisa sbuffò annoiata, facendo spallucce.
“Ma l’ha menata per due ore con le difficoltà dei finanziamenti e non ha nemmeno fatto il gesto di fingere di voler pagare il conto. Più che un’uscita romantica mi è sembrato un tentativo di estorsione,” osservò asciutta.
Alice emise un risolino leggero, scostandosi i riccioli dalla fronte.
“Io vedo Giacomo giovedì sera. Sai, credo che possa funzionare,” azzardò, incerta.
Ci voleva una certa cautela, in quel campo: Alice aveva una sfiga nera con gli uomini, dalla tenera età di 15 anni in poi. Ne erano passati dieci e il suo iter si ripeteva sempre uguale. Trovava sempre qualcuno che riusciva a sembrarle il tipo perfetto, salvo poi rivelarsi un emerito e laido bastardo entro un paio di mesi massimo. Nadia, la sua più cara amica d’infanzia, la definiva un’Attiramerde.
Elena batté piano le mani, entusiasta: in quei sei mesi trascorsi fianco a fianco, le due ragazze avevano finito per legare più di quanto entrambe si aspettassero, viste le oggettive differenze che le separavano.
“E’ ottimo,” osservò incoraggiante.
“Sì, beh,” fece lei, minimizzando. “A Michele non piace molto, comunque, quindi non farne parola in sua presenza,” aggiunse, per sviare un po’.
“Mmh,” fece Elena, maliziosa. “Sarà mica geloso?”
Alice sgranò gli occhi.
“Chi, Michi?” esclamò, scoppiando a ridere di cuore. “Stai scherzando! Quello cambia ragazza ogni settimana,” aggiunse, schietta, trattenendo a malapena un sorriso. L’aveva visto all’opera così tante volte che ormai i suoi exploit di conquistatore non la stupivano più nemmeno quando le vittime erano bellezze stellari.
“Ci credo,” sospirò Elena, sognante.
“Ma piantala un po’,” borbottò Alice arricciando il naso, torva.
Se c’era una cosa seccante, nell’avere come migliore amico Michele – che per il resto era ineccepibile, premuroso e adorabile – era il fatto che, presto o tardi, tutte le sue amiche finivano col perdere la testa per lui. Non si trattava solo della bellezza oggettiva di cui disponeva, ma di qualcosa che emanava, nel suo sorriso franco e rilassato, nella voce profonda e modulata, nelle maniere sicure e nello sguardo un po’ sognante dovuto alla sua perpetua trance creativa.
E poi, certo, c’era il fattore C.
Alice aveva seri problemi ad osservare il fondoschiena di Michele, perché, beh, era il suo migliore amico ed erano stati bambini assieme. Ma tutte, tutte le donne con cui ne aveva parlato – spesso contro la propria volontà, d’altra parte – finivano per assicurarle che il sedere di Michele era senza pari. Non era un culo, era il Culo. Per eccellenza.
Così era nato, a proposito di Michele, il mito del fattore C. Quando lei gliene aveva parlato, il grafico si era strozzato con la birra per il ridere e soltanto un intervento tempestivo di Paolo, a suon di sganassoni sulla schiena, gli aveva evitato l’asfissia.
Elena era un vittima mediamente grave del fascino di Michele. Lo lumava spesso, ma non gli aveva mai fatto corti spietate ed usciva con altri ragazzi serenamente senza l’ansia del confronto. Non come Milena-oca-Simonelli, che sfoggiava abbigliamenti sempre più invisibili nella speranza di attrarre gli sguardi dell’impassibile e indifferente obiettivo. No, Elena non ci perdeva le notti a struggersi: Michele Malfini non usciva con le colleghe, punto e basta. Tanto valeva rassegnarsi o licenziarsi, e lei preferiva la prima ipotesi. Anche in quel momento, si limitò a sbuffare in modo teatrale.
“Io la pianto, ma tutto ciò è ingiusto,” brontolò melodrammatica.
Alice le sorrise di sbieco, prima di sobbalzare nel rendersi conto che era, di nuovo, in categorico ritardo. Doveva assolutamente sbrigare una dozzina di telefonate intercontinentali rifilatele da Mauri, e per riuscirci le serviva ritrovare il raccoglitore con i contatti centroamericani scomparso la settimana prima: un’impresa ciclopica il cui esito le risultava dubbio.
Spense la sigaretta in uno dei quarantaquattro posacenere della redazione, per poi gettarsi in una folle corsa verso la sua scrivania. Inchiodò con uno stridio della gomma delle suole, spalancando le labbra per implorare chiunque potesse udirla di collaborare alle ricerche, ma il richiamo le morì in gola e la voce le mancò insieme al fiato, per la sorpresa, nel vedere un familiare raccoglitore ad anelli troneggiare sul piano di lavoro.
Era precisamente quello che cercava, e sulla copertina blu, rigida, era attaccato un post-it azzurro chiaro, su cui una mano dalla grafia a lei nota aveva tracciato alcune parole: Alice, ma dove hai guardato? Stava al suo posto, con gli altri. See ya. M.
Si sciolse in un sorriso, avventandosi sul mouse del computer. Si connesse immediatamente a Skype con l’identificativo dell’ufficio, e posizionò il puntatore sul nickname Malfinito.graf.
Grazie, Michi, inviò. La risposta si fece attendere appena un istante.
Figurati. L’ho fatto per essere perdonato in anticipo.
Alice aggrottò la fronte, perplessa.
Per cosa?, continuò.
Per il gigantesco pacco che ti tirerò stasera.
Alice sbuffò contrariata: avevano previsto di uscire a bere qualche birra, ma evidentemente Michele vedeva una delle sue ragazze, ché ben poco d’altro poteva distrarlo dagli amici.
Storse il naso, indispettita, ma finì per scrollare le spalle.
D’accordo, Don Juan, non farò domande.
Michele le spedì un sorriso.
Encantado, señorita, aggiunse.
Alice scosse piano la testa, divertita, quindi afferrò il cordless, spalancò impavida il raccoglitore e si accinse a passare il resto della mattinata al telefono.



Alice arrivava a casa tutti i giorni alle due, e di solito faceva pranzo da sola col suo cane Elliott.
Nei sei mesi trascorsi in città non aveva ancora avuto l’occasione di farsi molti amici, fuori dal lavoro, ma al giornale erano solo in due a lavorare a part-time, quindi a poter avere il pomeriggio libero – anche se a dire il vero lei lavorava tutto il giorno di mercoledì. Per il resto, prima c’erano stati i due mesi di stage a tempo pieno in redazione, poi aveva sistemato casa, ridipinto i muri e cambiato i mobili troppo sfasciati, completando il trasloco della cose lasciate a casa dei genitori, al paese, e poi si era rilassata un po’ per acclimatarsi alla nuova città. Andava a vedere i musei, passeggiava lungo il fiume con Elliott e si era iscritta in palestra, ma non la frequentava mai perché l’ambiente la deprimeva.
Le altre persone che conosceva, per lo più amici di Michele, erano più o meno nella situazione dei suoi colleghi: occupati fino alle sei del pomeriggio, per lavoro o per studio. Perciò, la sua vita sociale vera e propria aveva inizio intorno al tramonto.
C’erano due eccezioni a quella consuetudine: la prima, era che nelle sue passeggiate solitarie e le sue visite culturali le capitava di fare incontri galanti. Era così, osservando un immenso papiro al museo egizio, che aveva conosciuto Massimo, il simpatico figlio di buona donna che se l’era portata a letto tre mesi prima e che aveva finito per scomparire nel nulla – sembrava avesse persino disattivato il numero di cellulare – dopo essersi fatto imprestare trecento euro, ed era così che, un mese prima, aveva incontrato Giacomo.
La seconda eccezione suonò il campanello nell’esatto momento in cui Alice posò il piatto vuoto del pranzo nel lavabo. Elliott trottò verso la porta, rischiando di spazzare via una sedia e il tavolino del telefono con i fendenti gioiosi della coda nera, e Alice lo seguì con un sorriso, aprendo l’uscio.
“Ciao, creature,” cinguettò Lavinia con un sorriso luminoso, porgendo una vaschetta di gelato. “Ho portato dolce e marijuana. Una cannetta leggera per iniziare bene il pomeriggio.”
Alice ridacchiò piano, facendole largo perché entrasse.
“Credo che il puzzone non avrà diritto a nessuna delle due cose,” osservò ilare, carezzando la schiena massiccia del cane. Elliott le slinguazzò la mano, beato.
“Povero cosino, che vita di privazioni,” commentò Lavinia con tono compassionevole, addentrandosi nel suo caotico salottino. “Cara bella, sarà il caso di aprire un poco, qua sembra un’oppieria clandestina,” aggiunse, spalancando la porta-finestra del suo microbalcone. “Cielo, l’orrido topocane della vecchiaccia è sul balcone. Ora si metterà ad abbaiare,” gemette, appena prima che un guaito stridulo e irritante cominciasse a prodursi all’esterno.
Golia, il Chihuahua della nonnetta del quarto piano; Lavinia lo odiava a morte, e non si poteva darle torto: le sue funzioni primarie erano emettere suoni fastidiosi e pisciare subito fuori dal portone.
Alice ridacchiò, stravaccandosi in poltrona mentre Elliott lanciava un unico, possente latrato e zittiva il microscopico rivale, e osservò la nuova venuta con allegria immotivata: quand’era con Lavinia, si sentiva come con le amiche del paese, quasi avesse passato anni ed anni con lei. In realtà era la sua vicina di sopra e fino a due settimane prima si erano viste abbastanza sporadicamente, sebbene con piacere. Entrambe dotate di carattere vulcanico e una certa propensione al rocambolesco, avevano condiviso alcune tazze di tè serali e svariati gelati e caffè domenicali, nonché una memorabile sbronza imprevista del lunedì sera causata da una vecchia bottiglia di rhum che Lavinia aveva in cucina.
Poi, un martedì pomeriggio, Alice aveva sentito bussare alla porta.
“Mi sono licenziata,” aveva annunciato Lavinia senza nemmeno salutare, ed era entrata quasi travolgendola. “Sai cosa? Non me ne frega una mazza di budget e finanziamenti. Ho venticinque anni, non posso cominciare da adesso a fare per tutta la vita una cosa che mi fa schifo. Altrimenti a quaranta mi appendo al lampadario.”
Alice l’aveva osservata per qualche secondo in silenzio, per riaversi dalla sorpresa. L’aveva scorta agitata, scossa ma da quella tensione benefica dei cambiamenti positivi.
“Hai fatto bene. Non vorrei dover essere io a trovare il corpo all’ora del gelato,” aveva commentato rassicurante.
Così, Lavinia era disoccupata da due settimane, e non sembrava soffrirne. Passavano quasi tutti i pomeriggi insieme e andavano in giro, seguivano concerti, esposizioni, serate. Alice aveva trascorso un paio di serate con gli amici di lei, e Lavinia aveva conosciuto Paolo, Elena e ovviamente Michele.
“Cazzo, le chiappe del tuo amico,” la aveva mormorato ammirata, mentre l’oggetto di quella delicata attenzione si allontanava dal tavolo della birreria per andarsi a procacciare una consumazione.
Ed era finita lì. Lavinia era decisamente sposata alla fuga dalle complicazioni, sentimentali in primis. In compenso era bravissima ad attaccare briga: anche in quel momento inveì contro la vecchiaccia con un tono un po’ troppo alto per pretendere di non voler essere sentita, sbatacchiò un po’ il vetro e sprofondò nel divano con aria crucciata.
“Che hai fatto stamattina?” le chiese Alice per distrarla, scrutando due cucchiaini abbandonati sul tavolino da boh tempo. Sembravano puliti, e si limitò a strofinarli nello scottex, sempre opportunamente sistemato accanto al divano, prima di cacciarli nella vaschetta di gelato.
“Ho dormito fino alle dieci e mi sono fatta un bagno coi sali e una colazione da infinite calorie, con millefoglie, cioccolata calda e tutto,” rispose Lavinia lieta.
“Bello. Io mi sono fatta cazziare da Mazzini,” ribatté Alice, soave.
“Oggi voglio andare a fotografare l’obelisco. Ci stai?” propose Lavinia svagata, ingollando con soddisfazione un primo boccone.
“Mh, shì,” bofonchiò Alice ingozzandosi.



Elena, Paolo, Luisa, Milena – chissà chi l’aveva invitata, di nuovo – e Nicola con la ragazza nuova, quella di cui Alice proprio non riusciva a memorizzare il nome ma che tanto non parlava mai.
Tutti accampati, come sempre, a un tavolo del Vynile, il loro pub abituale.
Il sorriso di Paolo, Alice ne era certa, s’illuminò di malizia nel notare che insieme a lei arrivava anche Lavinia, mentre gli altri gettavano saluti a cui le due ragazze s’affrettarono a rispondere. Fregarono ciascuna una sedia ad altri tavoli, con una coreografia sincronica che pareva perfettamente studiata, e presero posto pigiate insieme agli altri.
“Che si dice?” chiese lei, gioviale.
“Culo non c’è?” domandò contemporaneamente Lavinia, candida.
“Laviii…” protestò Alice rassegnata, mentre Elena scoppiava a ridere e Paolo alzava gli occhi al cielo sogghignando. Milena finse di non sentire, monologando con la ragazza-senza-nome-ma-dalla-personalità-sicuramente-straordinaria di Nicola.
“Culo è uscito a sculettare,” fece Paolo sornione. E lì sì, Milena drizzò le antenne.
“Da qualche parte,” sospirò Elena, “stasera una ragazza è felice.”
“Una sola al mondo, certo,” mormorò Alice scettica.
“Ssssì, gioia,” le fece eco Lavinia ironica. “Beh, almeno non ci saranno distrazioni.”
“Io non mi distraggo quando c’è mio fratello, eh,” commentò Nicola, placido.
Per un motivo o per l’altro, vuoi per l’assoluta mancanza di somiglianze fisiche, vuoi per le personalità quasi del tutto opposte, ad eccezione dell’atavica calma che sapevano mostrare, quasi nessuno ricordava mai che Nicola e Michele erano fratelli, e nessuno si censurava mai parlando di uno dei due in presenza dell’altro.
Alice gli lanciò un’occhiata solidale, immediatamente corrisposta: entrambi sopportavano stoicamente i commenti sul fattore C da tempo, entrambi cercavano di convivere con le attenzioni che Michele accentrava più o meno involontariamente su di sé, ed entrambi, per ragioni evidenti, non erano interessati a passare ai raggi il famigerato sedere. Nix, nemmeno per idea.
Elena mise fine alle diatribe proponendo di ordinare uno spillatore da cinque litri e la serata prese il via. Alice si trovò a discutere animatamente del giornale, delle possibili riduzioni del personale, del fatto che ci fossero altri grossi tagli di finanziamenti previsti: l’inserto mensile che parlava del protocollo di Kyoto e delle 74 guerre in corso dava più fastidio che altro, per non parlare del numero speciale in via di redazione, cento e cinquanta pagine di critica alla manipolazione dell’informazione. Poi discussero delle foto di Lavinia, di Nicola che gli s’era suicidato d’improvviso il motore della macchina e piuttosto che farsi un mutuo per comprarne un’altra preferiva tagliarsi le vene. Aveva appena aperto un alimentari biologico e non poteva assolutamente mettere soldi da altre parti.
E poi era mezzanotte passata e ci si alzava l’indomani mattina, tutti tranne Lavinia che infatti li piantò lì per raggiungere altri amici e vedere un vecchio film di Woody Allen.
“Sbronza com’è chissà le risate,” osservò Elena divertita, prima di salutare per dirigersi verso casa.
Alice rientrava sempre a piedi dal Vynile, a meno che non piovesse forte, perché non abitava lontano. Quella sera fece appena una trentina di metri prima che le squillasse il cellulare. Scrutando lo schermo vide che era Giacomo.
“Ehi, ciao,” rispose, con una leggera stretta allo stomaco e un sorriso spontaneo.
Ciao a te,” l’avvolse la voce calda di lui. “Che fai di bello?”
“Sto rientrando dopo una birra con gli amici,” spiegò lei, sebbene una birra fosse un concetto un po’ vago. “Tu?”
Bah, ho lavorato. Altrimenti ti avrei portata a cena anche stasera.”
“Attento a non viziarmi, architetto,” esclamò Alice lusingata, con un breve riso. “Hai staccato solo adesso?”
No, un paio d’ore fa. Giusto un attimo prima che la voglia di suicidarmi e porre fine alle mie sofferenze avesse il sopravvento sull’istinto di conservazione,” mugugnò Giacomo ironico. “Ti va bene se giovedì ci vediamo per le sette?” aggiunse.
“Ottimo. Hai già scelto il ristorante, povero martire?” chiese Alice girando l’angolo, con tono da sfottò
No, cara la mia umorista. Mi presenterò a te con tre opzioni e ti spetterà la scelta finale,” annunciò Giacomo alla sua stessa maniera.
“Quale onore!” esclamò Alice, attraversando la strada con una breve corsa.
Mi fa piacere che te ne renda conto,” rise Giacomo. “Dai, vado, sono a pezzi. Ti chiamo, reporter.”
“Benissimo. Riposati… Ciao,” concluse Alice.
Odiava salutare al telefono. Non riusciva a dire cose accattivanti o audaci, si sentiva soltanto scema. E con Giacomo le cose stavano andando troppo bene per permettersi di essere più scema del solito. Architetto, trentun anni, attraente, colto e spiritoso, Giacomo sembrava la materializzazione di un sogno, con tanto di dettaglio scritto dal fato: per buona parte dei suoi progetti, le aveva raccontato, lavorava con materiali di recupero e sistemi a risparmio energetico.
Era pure etico, cavoli.
Quella dotta conclusione fu scortata dallo squillo di ricezione d’un messaggio di testo. Alice riportò l’attenzione sullo schermo del telefonino e sorrise tra sé.
Bum baby! Ci credi che sono andato in bianco? Facevo meglio a venire a sbronzarmi, mi sa. Siete già rientrati?
Ridacchiò e gettò l’occhio sul fondo della via, dove già si riconosceva il suo portone: non aveva voglia di tornare indietro, anche perché avrebbe sottinteso di bere e stare alzata fino a troppo tardi ed arrivare al lavoro in stati pietosi.
Così impari a paccarci, signorino. Sto arrivando a casa ora, vuoi passare di qui? Lollott e il divano sentono la tua mancanza.
Era già in cima alle scale e stava infilando le chiavi nella porta quando ricevette una nuova chiamata. Portò il telefono all’orecchio senza nemmeno guardare lo schermo.
“Michou,” esordì, centrando finalmente la serratura.
Lilli,” rispose Michele, sempre pronto a rispolverare i loro soprannomi di ragazzini. “Belva feroce e sontuoso giaciglio mi attirano come calamite. Dammi dieci minuti, ok?”
Alice annuì e spalancò la porta, con ampi gesti violenti in direzione del cane perché evitasse di festeggiare il suo ritorno abbaiando, così da non svegliare tutto il quartiere. Elliott si limitò quindi a balzarle addosso con grazia di bufalo.
“Ok. A subito,” rispose lei, prima di interrompere la chiamata.
Gettò borsa, giacca, sciarpa e chiavi in terra e si chinò a stritolare il cane, tra moine idiote e versi insulsi.
“E arriva lo zio Michele! Essì che arriva lo zio Michi, ebbello lui il mio puz-zo-ne, mio, mio…” blaterò, agitandogli il muso. Elliott ansimò gioioso e poi lei si rialzò, dirigendosi verso l’armadio a muro della sua stanza per tirare fuori un paio di coperte e un lenzuolo. Sorrideva.
Le piaceva quando Michele si fermava a dormire sul suo divano. Le metteva buonumore bisbigliare sciocchezze fino a notte fonda e svegliarsi al mattino trovandolo accartocciato in soggiorno, avvolto nelle coperte, quindi alzarsi un po’ prima per fare colazione con calma e farsi portare a lavorare in moto. Quand’erano bambini, dormivano l’uno a casa dell’altro molto spesso, dato che erano anche vicini di casa, inventando ogni volta complicati sistemi per far sì che i genitori ospiti non si accorgessero che restavano svegli fino a tardi, e poi mangiavano grosse colazioni la domenica mattina, guardando i cartoni. Ogni volta le sembrava ancora un po’ la stessa cosa, ed era bello e nostalgico insieme perché, anche se quella leggerezza della vita dei loro primi anni non c’era più, altre cose erano rimaste.
Sentì il ruggito della moto dall’incrocio sul viale, e si preparò al rituale della passeggiata con Elliott. Quando arrivò in strada Michele era già lì, li aspettava appoggiato al cofano di una macchina parcheggiata. Riconoscendolo Elliott gli corse incontro, scodinzolando entusiasta.
“Ciao, bionda,” esordì Michele, dopo il dovuto cerimoniale di saluto canino.
Alice sorrise e fischiò piano ad Elliott. Col cane che trotterellava allegro davanti a loro si misero in cammino alla penombra dei lampioni, nella città quasi addormentata in cui i rumori diventavano ovattati.



“Michi! Michi, guarda!”
La voce di Alice ha una musica di pianto. Michele non la riesce a vedere, in mezzo ai rami dell’albero dov’è arrampicato, ma la sente emettere un singhiozzo come uno squittio.
“Ali?” la chiama, iniziando a calarsi verso terra il più in fretta possibile. Mano, piede, scendi, giù il ginocchio, mano, e ancora. “Alice?” ripete, balzando al suolo da un po’ troppo in alto, per far prima. Gli cede un ginocchio, si accartoccia per terra come un sacco. Che figuraccia.
Per fortuna Alice non lo stava guardando: lui è il più grande, ed è un maschio, perciò non può mica perdere la faccia così. Cadere per terra appena sceso da un albero, che tonto. Alice lo potrebbe fare, imbranata com’è, non lui.
Lei però è accovacciata accanto a un cespuglio e guarda fisso a terra, con gli occhi appannati, spalancati. È immobile, rigida e pallida, e Michele le sia avvicina con un passo ciondolante e un’aria condiscendente.
“Cos’hai?” chiede annoiato, e si ferma lì con la bocca semiaperta guardando il punto che il dito di lei sta indicando, con orrore e meraviglia.
La volpe è fulva, quasi arancione, con un bel musetto appuntito e un nasino scuro. All’altezza del suo ventre il suolo è impregnato di sangue, rosso scuro, che forma una piccola pozza già un po’ rappresa.
“Michi,” sussurra Alice, e una grossa lacrima le rotola sulla guancia. “Cosa le è successo?” chiede, e di nuovo singhiozza.
Michele si gratta la zucca castana, silenzioso ed assorto. È morta, tutto lì, vorrebbe dire, e tu sei proprio una frignona. Poi si metterebbe a ridere e salterebbe in giro, e forse tirerebbe qualche pietra sulla bestiola defunta – tanto ormai non può sentire più niente. È quello che farebbe se fosse con Nicola o con qualcun altro dei suoi amici. Invece c’è la piccola Alice che piange.
Allunga la mano ad afferrare un ramo, strattonandolo per tirarlo via dal cespuglio, e lo infila sotto il fianco della volpe per rivoltarla.
Alice lancia un breve grido e piange un po’ di più, ma lui resta pensoso e impavido chinandosi a guardare più da vicino il corpo, intorno a cui cominciano a ronzare le mosche. Annuisce, osservando la ferita.
“Pallino da caccia,” afferma sicuro.
Alice singhiozza ancora, si sfrega la mano sul naso che cola.
“Perché l’hanno fatto?” chiede, accucciata e spaurita.
Michele scrolla le spalle, gettando via il bastone. Sbuffa piano e le va vicino, poggiandole la mano sulla spalla.
“Perché è così. Dai, Ali, andiamo in cortile,” la sprona. Adesso lo mette un po’ a disagio, quella volpe morta. Davvero, perché l’hanno fatto? Che giochi strani, e brutti, fanno gli adulti.
“Le volpi non si mangiano. Non serve a niente, e poi non l’hanno nemmeno raccolta,” continua Alice, e come se quelle ultime parole fossero troppo terribili da dire si mette finalmente a piangere forte, disperata. Sembra che le si spezzi il cuore.
“Oh, e piantala,” borbotta Michele, e le mette tutt’e due le braccia sulle spalle, la scuote piano e le dà qualche gentile colpetto sulla testa. Alice invece s’appoggia alla sua spalla e singhiozza, finché a lui non viene un’idea.
“Vuoi che la seppelliamo, Ali?” chiede.
Lei solleva la testa, tirando su col naso.
“Possiamo?” cinguetta speranzosa.
“Certo,” risponde Michele, alzandosi. Guarda la volpe, con un brivido di malessere. Bisogna spostarla, e fare un buco e buttarcela dentro. Deglutisce. “Andiamo a chiamare Nicola, che porti la pala,” aggiunge, tendendole la mano. Nicola è grande, saprà fare lui.
Alice annuisce asciugandosi gli occhi, poi afferra le sue dita per tirarsi su, seguendolo sul sentiero verso le case.


Edited by suni - 12/7/2010, 13:38
 
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MassimoDeConti
view post Posted on 12/7/2010, 18:47




Bene. Continua! XD

(telerafica al punto giusto, neh?)

Bene, ancora è loggato l'uomo al MIO pc. Sono Laly^^
 
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Rohchan
view post Posted on 13/7/2010, 08:21




Uuuuuhhh...
mi associo. Continua che è graziosa e sfiziosa al punto giusto.
Forse persino un poco autobiografico-sognante. Per via del cane sai.^^
 
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2 replies since 11/7/2010, 22:43   164 views
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